Nell’anno 929 Ugo di Provenza (re d’Italia entro l’impero carolingio) emise un diploma a favore del monastero di S. Pietro in Ciel d’Oro di Pavia, a cui concedeva l’uso dei carpentieri di cui disponeva “in valle quae dicitur Antelamo”, cioè in Valle Intelvi, perché vi operassero con continuità anche i loro figli e discendenti.
“Antellaco”, “Antelamo” sono i nomi con cui era indicata la Valle Intelvi nell’Alto Medioevo, per poi divenire, dopo il Mille, “Antelavo”, “Intelavo”, da cui il nostro “Intelvi”.
Il diploma, che faceva riferimento a una precedente simile concessione fatta dal re longobardo Liutprando (712-744), fu confermato negli anni 962, 1027, 1033, 1041.
Il riferimento a Liutprando è abbastanza logico, in quanto la tradizione vuole che fu proprio tale re a far erigere la primitiva chiesa di S. Pietro in Ciel d’Oro (comunque documentata nell’VIII secolo), nella quale egli fece traslare dalla Sardegna le spoglie di S. Agostino.
Il diploma di re Ugo ci dice che i carpentieri intelvesi sono stati di pertinenza delle corone longobarda e carolingia, che potevano concederli in uso a diversi enti; secondo Gian Piero Bognetti (illustre storico novecentesco del diritto altomedievale) tale pertinenza doveva risalire a quando i Longobardi (nel 588) conquistarono l’enclave bizantina che faceva capo all’isola comacina, vent’anni dopo la loro calata in Italia. In quel momento si sarebbero impadroniti delle fortificazioni ma anche delle maestranze “comacine” che vi operavano.
Secondo il Bognetti la scelta di utilizzare a Pavia (capitale del regno) i carpentieri intelvesi derivava da un loro particolare grado di specializzazione. Penso che essa si sia originata in tempi antichi per cause ambientali, legate alla massiccia presenza di selve di castagni: Cassiodoro, ministro di Teodorico agli inizi del VI secolo, affermava che i castagneti del lago di Como erano folti come chiome di capelli! D’altronde la specializzazione era, per le popolazioni prealpine, un mezzo di sopravvivenza, che ha condizionato anche le politiche familiari delle nostre vallate: meglio sposarsi più tardi rispetto alla pianura (dove servivano molte “braccia” poco qualificate per lavorare nei campi) e mettere al mondo pochi “specialisti” capaci di emigrare e vincere la concorrenza dei lavoratori autoctoni, più numerosi ma meno esperti.
Questi carpentieri della “valle quae dicitur Antelamo” (intelvesi) furono oggetto di particolari privilegi concessi da re longobardi e imperatori carolingi, legati alla loro provenienza e professione, che poi trasferirono anche altrove: caso emblematico sono i “magistri Antelami”, reclutati dalla Valle Intelvi e, più tardi, dall’intero bacino del Ceresio, che a Genova dal XII secolo formavano una corporazione di costruttori che di fatto deteneva il monopolio dell’edilizia. Nel capoluogo ligure gli Antelami avevano il diritto di risolvere le loro questioni professionali “secundum morem et consuetudinem terrae Antelami” (cioè secondo le consuetudini intelvesi) e non in base alle leggi genovesi. A Genova il termine “Antelami” rappresentava una professione, ma manteneva ancora il significato geografico, anche quando ormai la Valle Intelvi si indicava altrove col termine “Intelavo”: esempio emblematico quello di un magistro di Verna che nel capoluogo ligure è registrato nel 1296 come “Petrus Papinus magister Antelami de valle Antelami de loco Averna”.
Dalla schiera dei magistri Antelami con buona probabilità scaturì il famoso scultore e architetto tardoromanico Benedetto Antelami, attivo soprattutto a Parma.
Ma questa è… un’altra storia!
Marco Lazzati