Ultimamente vi ho parlato della scagliola e forse qualcuno è rimasto… di stucco.
Allora perché non dire qualcosa anche riguardo questa forma d’arte?
Nel parlare comune (e spesso anche nelle visite pastorali sei-settecentesche delle chiese) gli stucchi vengono erroneamente chiamati “gessi”, anche se il gesso non è sempre presente e, soprattutto prima dell’Ottocento, se lo è, lo è in piccole quantità: al contrario della scagliola (che è composta soprattutto di gesso), lo stucco ha come legante principale la calce.
Lo stucco è un materiale plastico utilizzato per modellare statue, rilievi o semplici decorazioni tridimensionali, a imitazione del marmo o della pietra in genere. E’ costituito da un legante (che “fa presa”) impastato con acqua e con un “aggregato” (o “scheletro”) che serve a “fare volume” e a impedire che il manufatto si ritiri quando si indurisce; a volte viene aggiunto anche un po’ di materiale organico per rallentare il tempo di presa (in modo da poter lavorare con maggiore tranquillità) e per aumentare la tenacia del manufatto.
La tecnica dello stucco è antichissima: nei climi più asciutti del Mediterraneo (antico Egitto, Medio Oriente) si prediligeva il gesso come legante, mentre Greci e (soprattutto) Romani preferivano invece la calce.
L’arte dello stucco ebbe un grande revival a partire dall’epoca barocca (in seguito al rinnovamento delle chiese in seno alla Controriforma e, più tardi, al diffondersi di abitazioni principesche riccamente decorate): un’alternativa più economica del marmo (che doveva essere cavato e trasportato) e gli Intelvesi ne divennero grandi maestri.
Gli stucchi “intelvesi” (in senso lato, comprendendo anche le vicine vallate ticinesi), pur differendo lievemente da bottega a bottega, erano formati da più strati: nelle parti interne il legante era costituito soprattutto da calce, mentre l’aggregato (in mancanza di sabbia di fiume) era composto da pietre polverizzate (calcari o micascisti); negli strati più esterni poteva trovarsi (oltre alla calce) anche un certa quantità di gesso, mentre l’aggregato era formato soprattutto da polvere di marmo; tra i materiali organici (aggiunti in piccola quantità) c’era spesso l’uovo. Ovviamente il gesso era utilizzato solo all’interno degli edifici, essendo estremamente sensibile all’umidità. Alcuni manufatti in stucco venivano colorati o dorati.
Le analisi chimico-fisiche effettuate sugli stucchi della chiesa di S. Lorenzo a Laino hanno evidenziato una certa differenza tra la bottega dei Colomba di Arogno e quella successiva del lainese G.B. Barberini: i primi (che hanno operato nelle navate laterali) utilizzavano molti più strati (fino a 9) e usavano soprattutto la calce come legante anche nelle zone più esterne, mentre il Barberini (che ha lavorato soprattutto nella navata centrale) riduceva il numero di strati (3) e usava più gesso nelle finiture.
Le decorazioni seriali (come per esempio semplici modanature) erano prodotte utilizzando stampi o forme mobili; inoltre alcuni stucchi venivano prodotti in situ, altri invece si lavoravano “sul banco” e poi venivano “montati” nel luogo di destinazione.
Tra gli stuccatori intelvesi più noti citiamo per il XVII secolo il lainese Giovanni Battista Barberini, Giuseppe Ferradini di Casasco e Francesco Prestinari di Claino; per il XVIII secolo invece nominiamo Giovanni Battista Comparetti di Pigra, Leonardo Retti e Paolo Caprani di Laino e, soprattutto, il grandissimo Diego Francesco Carloni di Scaria, precocissimo interprete del rococò europeo.
Marco Lazzati